Cosa riceviamo in eredità? Solo beni materiali o anche immateriali?
Cosa ci viene trasmesso oltre al cognome? Oltre al valore, agli affetti, alla cultura?
L’eredità è sempre consapevole, oppure anche incoscia e quindi involontaria?
Cosa vuol dire riconciliarsi col passato?
E’ iniziata con queste domande la lectio magistralis della Prof.ssa Michela Marzanodocente di Filosofia morale presso l'università Paris Descartes e deputato PD al Festival Filosofia Modena 2015.
L’ipotesi formulata dalla filosofa, è che si può riconciliarci col passato trovando un equilibrio tra fedeltà e tradimento, in particolare rimanendo fedeli all’unica cosa indispensabile per essere noi stessi e tradendo tutto quello che non ci è stato trasmesso con amore, ma ordinato con la minaccia.
Massimo Recalcati in “Le mani della madre”, descrive il padre come colui che trasmette la legge e la madre come il primo soccorritore, colei che trasmette il senso della vita, che salva dalla caduta nel non-senso.
Quando questi due elementi non esistono, la trasmissione non avviene.
Se il padre non è capace di trasmettere la legge e la madre non soccorre con amore, avvengono delle ferite gravi.
Come potrà il figlio curare queste ferite del passato?
Come potrà imparare ad articolare il desiderio, ad ascoltare il proprio Daimon - direbbe James Hillmann - , se questo desiderio sarà in contraddizione con l’imposizione subita del “Tu sei questo”?
Come potrà accogliere con amore la propria voce interiore, se lui stesso non sarà stato accolto fin dall’inizio della vita con amore, ma sarà stato pietrificato da uno sguardo di Medusa, che avrà fatto a pezzi la possibilità di creare fiducia in se stesso?
Il rischio di diventare auto-pietrificanti c’è, ed è elevato.
Ma qual’è la via d’uscita?
“Non c’è parola senza risposta, anche se l’unica risposta è il silenzio”, scrive Jacques Lacan. Questa è una regola della psicanalisi, secondo la quale è sufficiente che la parola trovi nell’altro un’accoglienza silenziosa, uno specchio che permette di vedere e capire. Questa chiarezza è data dalla possibilità di ascoltarsi e capirsi grazie all’ascolto dell’altro.
Questo processo non è esclusivo della psicanalisi, bensì può – anzi dovrebbe – essere una modalità propria della relazione, nella forma del Dialogo, che etimologicamente significa “azione del parlare tra due persone”.
Purtroppo oggi si fa fatica a trovare ascolto, quell’ascolto in cui la risposta silenziosa e senza giudizio è specchio, anche quando la parola altrui rimane incomprensibile, perché derivante da un’esperienza altra, da un’alterità sconosciuta e che fa paura.
L’ascolto che rende possibile la narrazione di sé è ciò che consente di fare i conti con il proprio passato, di far emergere i ricordi in modo non astratto ma vivo (l’etimologia di ricordare significa “riportare al cuore”).
“Faremo pace coi nostri ricordi quando arriveremo a sentirne il profumo” scrive la Prof.ssa Michela Marzano nel suo “Volevo essere una farfalla”.
E nel documentario sulla sua vita, la cantautrice inglese Amy Winehouse dice: “Tutti i testi delle mie canzoni sono autobiografici. Non potrei scrivere di nulla che non conosco, che non sia strettamente legato alla mia storia personale. Quando scrivo d’amore, ad esempio, quando scrivo di un uomo, devo tornare a ricordare tutto di lui, anche il profumo del suo collo”. Questo è quel ricordare che permette di rivivere il proprio passato in modo catartico, per ri-superarlo e quindi imparare ad accettare la vulnerabilità, le imperfezioni, il giudizio negativo, la sensazione di non essere all’altezza.
Scrive Paul Ricoeur: “L’unico modo che abbiamo di conoscerci è raccontarci, raccontando anche quello che non abbiamo vissuto, perché ci è stato negato o imposto”.
Ricordare, riconoscere a accettare anche ciò che non abbiamo vissuto ci apre ad una visione più integra di noi stessi, comprensiva di tutte le nsotre potenzialità, anche quelle che non abbiamo espresso.
E accettare di essere “diseredati” – perché non corrispondiamo alle aspettative che altri hanno proiettato su di noi – significa aprisi gioiosamente al futuro, ad un futuro in cui si prende la responsabilità della propria vita, abbandonando le recriminazioni, frutto di quello che Lacan chiama sentimento di “juissance mortifère” (godimento mortifero), cioè dell’atteggiamento vittimistico di chi, colpevolizzando gli altri, sposta fuori da sé la responsabilità della propria vita.
La riconciliazione con il passato è possibile se si riesce a capire che l’assenza permarrà, che non ci sarà risarcimento né riparazione, perché non è possibile cambiare il passato.
E se capiamo che l’assenza è stata causata da una “tara ereditaria”, cioè da un buco perpetuatosi nel tramandare con amore legge e desiderio.
Questo è, a grandi linee e con parole mie (anche il riferimento a Amy Winehouse è mio, non vorrei attribuirlo alla Professoressa, che forse lo troverebbe troppo “pop”, anche se Amy era jazz), l’intervento di Michela Marzano al Festival Filosofia di Carpi, in una vastissima e rilassatissima Piazza Martiri, illuminata dal sole di un settembre tropicale e sovrastata da un cielo azzurrissimo decorato dalle scie di molti aerei.
La Prof.ssa Marzano – o Michela, come ha detto di voler essere chiamata quando non Professoressa – ha dovuto tagliare il suo intervento, perché il tempo era scaduto. Peccato. Sarei stata molto curiosa di poterlo sentire integralmente.
Mi chedo se in quel pezzo mancante avrebbe parlato di come imparare non solo ad accettare il proprio passato, ma anche ad amarlo. Ad amarlo tutto, inclusi il dolore, le imperfezioni, le mancanze, che ci hanno reso quelli che siamo, con le nostre forze e le nostre fragilità, con i nostri traguardi e i nostri desideri.
Mi chiedo se avrebbe parlato di come possiamo imparare ad amare la nostra storia e riconoscervi una specie di traccia - quello stesso disegno da noi amato e scelto prima di venire al mondo e poi dimenticato.