Delle 9 beatitudini citate da Gesu’ nel discorso della montagna, ce n’è una in particolare che è stata oggetto della conferenza tenuta in questi giorni a Parma dal Prof Duccio Demetrio, guru italiano in fatto di autobiografia, fondatore della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari.
Qual è? La misericordia.
Che rapporto c’è tra uno scrittore non credente, una parola trascendente e una pratica apparentemente obsoleta in età di social network, come l’autobiografia?
Come ho già scritto nel post "Riconciliarsi col passato", prendendo spunto dalle riflessioni di Michela Marzano, la scrittura offre una preziosa occasione di ri-affezione a se stessi.
Ma la misericordia è qualcosa di generalmente associato alla relazione con l’altro: smontando la parola, troviamo un etimo che ci parla di “cor” latino e di misereo, di miseria altrui, di compassione che ci porta istintivamente a sentire il dolore dell’altro.
Ecco allora che, rimanendo in questa accezione relazionale della parola, Demetrio cita l’arguta trasposizione contemporanea delle 7 opere di misericordia corporale proposte nel libro “Compassione” del medico Giorgio Cosmacini, in cui ogni stazione viene presentata rovesciata: il dar da mangiare agli affamati si ribalta nell'esigenza di sottoalimentare gli obesi; dar da bere agli assetati si inverte nella regola di disassuefare i bevitori; vestire gli ignudi si trasforma nella resistenza alle invadenze della moda; alloggiare i pellegrini nel non respingere gli immigrati; visitare i malati nel non perdere il dialogo con i pazienti; visitare i carcerati è il non aggiungere pena a pena; seppellire i morti si traduce nel rispetto della dignità e della volontà di chi muore.
Ma introdurre il tema della scrittura autobiografica sposta il tema della misericordia su un piano tutto intimo e personale. Chi è il prossimo dentro di noi? Chi è, direbbe Anna Frank, quell’Anna “meno” che ha bisogno di essere perdonata dall’Anna “più?”
In fin dei conti, anche il perdonare se stessi non è cosa da poco, e la scrittura offre un valido aiuto a chi vuole farlo, guardando in faccia uno per uno i propri errori, schivando la tentazione di facili auto-assoluzioni.
Anzi, andando oltre, si potrebbe dire che proprio imparando a riconoscere dentro noi quel prossimo che ha bisogno di essere accettato , quella parte di noi che meno ci piace vedere, che consideriamo “altra da noi”, possiamo imparare ad accettare gli altri fuori di noi, perché – in fondo – gli altri sono dentro di noi, così come noi siamo dentro gli altri.
Ci sono situazioni in cui si passa tutta la vita a cercare di perdonarsi, con grande sofferenza, senza mai riuscirci fino in fondo.
E’ stata emozionante la lettura di un paio di poesie di un detenuto del carcere di Opera; versi scritti con “stimmate d’inchiostro” (cit.), desiderosi di tenere accesa la candela di una dolorosa memoria, onesti nel ripercorrere ogni passaggio di nottate perverse e violente, ancora capaci di stupore al pensiero di tramonti invisibili dietro il filo spinato, eloquenti nel trasmettere la sofferenza infinita di chi paga, sia pur meritatamente, con la perdita della libertà.
Trapelano, dalle poesie di questo detenuto, la caparbietà e la determinazione di chi vuole resistere alla propria storia, assumendosene la responsabilità fino in fondo, senza cedere a fughe reali o sintetiche.
Una fatica di vivere e di scrivere, che nasce dalla volontà strenua di essere misericordiosi con se stessi, quando sarebbe più semplice odiarsi o dimenticarsi di sé. Ma la misericordia non è cedimento: è resistenza e coraggio.
Oggi più che mai, in un momento storico in cui occorre trovare un modo nuovo di reagire alla brutalità, un modo che non sia né resa né attacco, è una parola su cui riflettere.