Qualche giorno fa mi sono imbattuta in un breve documentario realizzato dal Louisiana Museum of Modern Art su Bill Viola, il famoso videoartista americano. Apre il documentario il frammento dell’opera The Raft (2004), in cui una ventina di persone diversissime tra loro pare aspettare un autobus, quando viene investita in slow motion da un’ondata d’acqua. Da altri spezzoni di opere, alcune più datate come The Crossing (1996) e altre più recenti come Inverted Birth (2014) appare chiaro il legame dell’artista con l’acqua.
Il documentario mostra lo studio all’interno della casa in cui l’artista lavora, pieno zeppo di libri ovunque. L’origine delle opera di Viola è molto culturale e spesso spirituale, nutrita di poesia, come nel caso di Room for Saint John of the Cross (1983), la video installazione dedicata al martire mistico e poeta cristiano del ‘500 San Giovanni della Croce.
L’artista definisce il proprio lavoro come un’indagine costante su se stesso, una scavo che scandaglia incessantemente la propria personalità e la vita stessa. “There's more than just the surface of life" Viola spiega. "The real things are under the surface". Perciò rimango a bocca aperta quando, alla domanda dell’intervistatore sul perché della ricorrenza così forte dell’acqua nelle sue opere, l’artista confessa candidamente di averne realizzato il motivo solo recentemente, grazie alla domanda di un giornalista: “Sig Viola, forse è successo qualcosa nella sua vita, che ha in qualche modo causato questa sua attrazione per l’acqua?”
E lì, dopo anni e anni di indagine su se stesso, Viola finalmente collega l’acqua ad uno dei suoi primi ricordi: a 6 anni cadde in un lago, scese fino a toccare il fondo, un luogo che gli sembrò paradisiaco. Fu salvato dallo zio che si trovava con lui.
Mi sembra pazzesco. Stupita, mi chiedo come può un artista dedicato all’esplorazione delle proprie visioni, intuizioni, ispirazioni, concentrato sull’elaborazione attraverso il proprio sguardo personale del mondo, essere così poco consapevole della propria storia e degli eventi cruciali che hanno formato quello stesso sguardo protagonista delle proprie opera.
Certo, da una parte il fascino del lavoro artistico consiste nella spontaneità, nell’abbandonarsi al flusso dell’idea, senza interporre interpretazioni e auto-analisi. O forse Bill Viola - come confessa Doris Lessing “Da che ho memoria l’ho sempre fuggita” - non si trova a proprio agio con la propria memoria.
D’altra parte, è evidente il paradosso di un lavoro che vuole indagare la propria soggettività ma, allo stesso tempo, la ignora, volontariamente o no, o la fugge.
Viola, però, pare ricordare l’aneddoto della domanda del giornalista con gratitudine, riconoscendo la preziosità di quel momento epifanico.
E allora, quello che vorrei dire al Sig. Bill Viola – chiedendogli di perdonare la mia presunzione - è:
1. Caro Sig. Viola, continui a indagare la sua infanzia, che è lo scrigno delle nostre fragilità e passioni!
La memoria, una volta innescata la miccia, continuerà a regalare scoperte e a rivelare nessi. Scrive con tono entusiasta il primo grande autobiografo S. Agostino nelle sue Confessioni: “Quando sono là dentro, evoco tutte le immagini che voglio. Alcune si presentano all'istante, altre si fanno desiderare più a lungo, quasi vengano estratte da ripostigli più segreti.”
2. Se Lei, Sig. Viola, è, come tutti, alla ricerca della felicità, vorrei ricordarle la massima greca iscritta nel tempio di Apollo a Delfi: “conosci te stesso”. Questo detto può sembrare in opposizione al conoscere il mondo, ma le due conoscenze possono considerarsi due facce di una sola medaglia: una conoscenza viva e attuale non può prescindere dalla mente che conosce
3. Nel Suo caso, Sig. Viola, è stato il dialogo, con la sua importante funzione di specchio e restituzione, a far affiorare una verità creduta perduta. Provi a sperimentare la scrittura come mezzo di conoscenza di se stesso! L’esercizio regolare della scrittura Le consentirà di intraprendere un percorso di conoscenza di se’ strutturato e completo, attraverso la Sua evoluta capacità di riflessione, la Sua intelligenza, ossia la Sua capacità di intus legere, di leggere dentro se stesso e dentro le cose, andando oltre la superficie
4. L’autobiografia è diventata una gran moda, questo si sa, perché sancisce l’appartenenza all’Olimpo della notorietà, ma di certo non è appannaggio esclusivo delle star e dei Vip, anzi. Nel suo caso, Sig. Viola, pur appartenendo a questo Olimpo, l’autobiografia può essere un lavoro utile a capire meglio come dare più spessore al proprio lavoro attuale e a progettare con più consapevolezza quello futuro, perché la scrittura di sé è come se portasse alla luce tutto ciò che è stato vissuto, di cui non si ha ancora un’immagine complessiva.
5. Scrivere di sé, nelle varie forme autobiografiche - dal diario, alla poesia, alle confessioni, alla scrittura contemplativa fino alla forma più compiuta dell’autobiografia vera e propria - non è un’azione narcisistica, ma uno strumento di lavoro faticoso e allo stesso tempo potente, per radicare la propria espressione, rafforzarla, renderla agente di trasfromazione. Scrive l’acculturata ebrea di Amsterdam Etty Hillesum nel suo Diario edito da Adelphi – cronaca in prima persona della persecuzione nazista degli ebrei - “La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare a se stessi” non è proprio una forma d’individualismo malaticcio. Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso.”
Infine, se decidesse di scivere di sé, caro Sig. Viola, sarei felice di poterla aiutare.