Se dici kitsch la prima cosa che ti viene in mente è un oggetto, dalla statuetta metereologica al pesce palla imbalsamato, dal maculato ai tessuti animalier in genere, dai pantaloncini tirolesi al boa di struzzo. Quando Federica Bianconi, curatrice di #theStrangeDays mi ha invitato a quella pazza 3 giorni d’apertura del Festival della Creatività di Parma, chiedendomi un lavoro sul kitsch, all’inizio ho pensato – in modo presuntuoso e, come avrei presto scoperto, kitsch esso stesso – che il Personal Storytelling c’entrasse poco, se non altro per la sua natura intellettuale, relazionale e fisica.
Poi - in una sottospecie d’illuminazione - mi è venuto in mente che il simbolo del kitsch, cioè il souvenir, l’oggetto-cartolina preso come piccolo trofeo delle nostre peregrinazioni, è il sostantivo francese per “ricordo”, che a sua volta deriva dal latino ricordare, che significa “portare al cuore” (siccome allora si pensava che il cuore fosse la sede della memoria). Insomma, tutti ingredienti di prima scelta della scrittura di sé.
Questo piccolo trip etimologico mi ha galvanizzato a tal punto di accettare la partita.
Poi mi sono ricordata di un’amica che non vedevo da tempo, che s’era laureata col kitsch. Abbiamo preso una birra assieme. Parla, parla, realizziamo che il kitsch è dappertutto, basta scorrere la bachecha di Facebook, fare zapping, guardare la pubblicità. Ma che differenza c’è tra quel tipo di kitsch e l’atteggiamento snob di noialtri, che organizziamo una kermesse del kitsch, con la malcelata intenzione di assaporare il cattivo gusto (proibito) mantenendoci nel buon gusto?
Il nome di quella differenza, che già era nell’aria, lo coniò Susan Sontag negli anni ’60 battezzando lo stile “camp” – dal francese “se camper”, mettersi in mostra. Cioè, nel momento in cui si sceglie deliberatamente qualcosa di stravagante, vistoso, eccessivo, non si è più kitsch (cosa che ha a che fare, a questo punto, con l’ingenuità) ma si diventa camp. A meno che non si faccia del kitsch consapevolmente, ma senza dichiararlo, con la volontà di provocare un effetto sentimentale preciso, come osservò Eco nel caso del pittore Boldini, che dipingeva le donne dalla vita in giù con sapiente tecnica impressionista e dalla vita in su con una precisione pornografica, tesa ad evidenziare le fattezze in pose seducenti, in modo da spacciare un dipinto ad alto tasso erotico per un ritratto di nobildonna.
Quest’idea del prendere le distanze dal kitsch, usarlo con ironia, identificarlo, separarlo, mi è piaciuta e ho cominciato a cercarne esempi in quella che è la materia prima del Personal Storytelling: la letteratura.
Ed ecco un efficace corrispettivo letterario del Boldini nel libro “Deutscher Kitsch” (1962), in cui il critico letterario tedesco Walther Killy crea un maligno pastiche, in cui mette insieme i brani di 6 autori tedeschi produttori di rinomata merce di consumo, accomunati dal voler provocare un effetto liricizzante e disposti ad usare ogni mezzo per farlo – dall’accumulo di verbi allusivi, alla ridondanza di aggettivi liricizzanti, all’utilizzo spropositato di stereotipi poetici.
“Sussurra lontano il mare e nel silenzio fatato il vento muove teneramente le rigide foglie. Una veste opaca di seta, ricamata in bianco avorio ed oro, fluttua attorno alle sue membra e lascia scorgere un tenero collo sinuoso, sul quale gravano le trecce color di fuoco. (…) Brunilde era seduta al pianoforte e faceva scivolare le mani sulla testiera, immersa in un dolce fantasticare. (…) E fuori il vento notturno carezza col tocco delle sue tenere mani la casa d’oro, e le stelle vagano per la notte invernale.”
Sicuramente leggere a voce alta questo estratto – breve ma sufficientemente stucchevole - fa ridere d’imbarazzo, può essere utile a stilare un libro nero delle parole da evitare in poesia, o al limite può far sorgere qualche domanda sulla nazionalità del kitsch e sul perché esso sia etimologicamente nato in Germania ed ivi longevamente studiato (pare che nella seconda metà dell’800 i turisti americani a Monaco, volendo acquistare opere d’arte a poco prezzo, chiedessero uno “Sketch”, parola entrata nell’orecchio e poi tradotto in tedesco come Kitsch.)
Ma ciò che manca in Killy è ancora l’aspetto autobiografico – continuo quindi alla ricerca di esempi di autoritratti kitsch, in cui chi scrive guardi se stesso con il preciso obiettivo di individuarne le manie, le cadute di stile, gli sfondoni, come se stesse facendo non un autoritratto, ma un’autocaricatura.
E’ così difficile prendersi in giro? Eppure tutti abbiamo indossato maglioni coi paesaggi ai ferri, avuto padri con Fiat 850, usato terra d’Africa fino ad avere la faccia arancione e altre amenità, a seconda dei nostri decenni di riferimento. E poi, se come ormai abbiamo capito tutti, l’ironia è vincente, al punto che l’unica pubblicità ormai accettabile è quella che fa ridere, l’auto-ironia dovrebbe esserne la forma più acuta e creativa.
Sia pur con un’interpretazione letterale del kitsch (quella iniziale in cui accostavo questo aggettivo ad oggetti), ci prova a prendersi in giro (sia pur prendendola alla lontana) Guido Gozzano. L’espediente è puramente autobiografico: il poeta, sfogliando un album, ritrova una foto scattata nel 1850 che ritrae sua nonna Speranza con l’amica Carlotta, entrambe diciassettenni e compagne di studio in collegio.
“Loreto impagliato e il busto d’Alfi eri, di Napoleone
i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto!)
il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti,
i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,
un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,
gli oggetti col mònito salve, ricordo, le noci di cocco,
Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi,
le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici,
le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature,
i dagherottipi: figure sognanti in perplessità,
il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone
e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto,
il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco
chermisi... rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!
I fratellini alla sala quest’oggi non possono accedere
che cauti (hanno tolte le federe ai mobili: è giorno di gala).
Ma quelli v’irrompono in frotta. È giunta è giunta in vacanza
la grande sorella Speranza con la compagna Carlotta.”
Ricordando le suppellettili di quel salotto borghese con ironia affettuosa, il capostipite dei crepuscolari ammette con tono camp il conforto del kitsch (le buone cose di pessimo gusto!), per diventare invece successivamente corrosivo nei confronti degli zii, anch’essi scontati come souvenir, nella banalità nella conversazione e nel moralismo ipocrita.
Qui sta un passaggio fondamentale: kitsch non è solo ciò che è fuori di noi, ma siamo noi stessi, con i nostri atteggiamenti piccolo-borghesi. E qui si apre l’interessante rassegna del kitsch non più solo estetico, ma sociale, per cui ci attacchiamo eccessivamente alla nostra immagine, fingiamo di essere migliori di quello che siamo, godiamo nel lasciarci andare al sentimentalismo e al voyeurismo, ci crogioliamo nella nostalgica mitizzazione del passato.
Ci da una chicca in questo senso uno che non ha mai fatto mistero dei propri vizi, al contrario: Charles Bukowski, in una delle sue poesie autobiografiche “Quando eravamo giovani”. Qui, oltre a dichiarare il proprio precoce alcolismo, Charles si fa beffe delle preoccupazioni dei genitori.
che cosa diranno i vicini
i miei genitori erano sempre dietro a chiederlo,
naturalmente non mi importava un fico di
che cosa diranno i vicini.
mi facevano pena i vicini,
codardi che spiavano da dietro le tendine.
l’intero quartiere si spiava addosso
e negli anni trenta non c’era molto da vedere,
eccetto me che tornavo a casa ubriaco
a tarda notte.
“finirai per uccidere tua madre”
diceva mio padre,
“e inoltre, che cosa diranno
i vicini?”
Con la lettura di questi brani abbiamo iniziato il laboratorio di Personal Storytelling svolto al WoPA, l’ex spazio industriale della metalmeccanica Manzini di fianco alla stazione di Parma. L’intenzione era ispirare un gruppo di simpatici masochisti a scrivere male di sé. Il clima si è scaldato a tal punto che tutti hanno accettato il gioco sporco, arrivando persino a leggere i propri scritti, equivalente ad “autosputtanarsi” pubblicamente. Non male!
A quel punto, tanto valeva sputtanare anche la città che ha ospitato questa mostra e il nostro lavoro!
Ed ecco che allora ci è venuto in aiuto uno specialista in materia, cioè lo scrittore parmigiano Paolo Nori, che pubblica con Feltrinelli, abita a Bologna e racconta questo episodio nel suo romanzo autobiografico (anche se non lo dichiara, è così) Mi compro una Gilera.
“Una volta ero a Mosca, sulla piazza Rossa, c’era una gita organizzata che stavano epr visitare le chiese del Cremlino, con una guida russa, io ho chiesto se mi potevo unire, Certo mi ha detto al guida, di dov’è lei?
Sono italiano.
Si, ma italiano di dove?
Italiano di Parma.
Ah Parma, che città meravigliosa, La Certosa di Parma, ha detto.
E io quando son tornato, devo dire, avevo più considerazione di quando ero partito, di Parma. Mi faceva star bene il fatto che in Russia, sulla piazza Rossa, c’era della gente che pensava che Parma era una città meravigliosa.
C’è uno studioso di Reggio, se non mi ricordo male, che ricostruisce la storia della redazione della Certosa di Parma, il romanzo di Stendhal, e dice che Stendhal la vicenda storica che racconta era una vicenda romana, e che lui la voleva collocare in un piccolo stato, che andavan bene sia Modena che Lucca che Parma, solo che Modena e Lucca secondo lui poi i duchi di Modena e Lucca magari s’arrabbiavano poi poteva avere dei problemi, Stendhal faceva il diplomatico, invece Parma andava bene perché era uno staterello che contava poco e a Parma c’era la duchessa Maria Luigia che lui, Stendhal, che era devoto a Napoleone, la chiamava la femme de ménage, se non mi ricordo male, e non la poteva sopportare perché aveva ripudiato suo marito dopo che era caduto in disgrazia.
Difatti, andare a leggere il romanzo, Parma sembra il buco del culo del mondo, un posto con dei governanti ignoranti, corrotti, dove non succede mai niente, il regno della noia, dell’ignoranza e dell’ipocrisia e una cosa bellissima è che oggi, passati quasi duecento anni, quel romanzo lì è una delle principali glorie di Parma nel mondo e l’albergo più importante di Parma si chiama Hotel Stendhal, o perlomeno così si è chiamato per molti anni adesso ultimamente ne han fatti dei nuovi che sono più importanti di lui.”
Parma vista dagli occhi di un romanziere ottocentesco, di un filologo reggiano, di una guida turistica russa, di un suo cittadino scrittore dissacrante, di noialtri cittadini spesso ignoranti e vanagloriosi. Un gioco di sguardi che può andare avanti all’infinito, come dentro ad un cristallo lavorato geometricamente.
E dall’esilarante Nori siamo passati all’ultimo atto del laboratorio, con finale a sorpresa. Avevo preparato per ogni partecipante un ritratto kitsch – in base alla loro storia o semplicemente alle suggestioni del loro viso, per chi non conoscevo - a suon di Photoshop (che io sappia non l’hanno ancora inventata un’App per farti un selfie kitsch…chissà forse dopo questo arriverà). Sono rimasti stupiti, sì. Nessuno si è rivoltato e nessuno ha avuto il coraggio di impedirmene la diffusione.
Come nell’Odissea, in cui Ulisse riconosce la grandezza delle proprie gesta solo quando sente l’aedo cieco decantarle alla corte dei Feaci, così ho chiesto ai partecipanti di lasciarsi invitare a scoprire qualcosa di sé (di piccolo, più che di grande) attraverso lo sguardo dell’altro - cioè il mio, in questo caso.
Ancora una volta, l’esercizio ha funzionato. Abbiamo concluso il laboratorio appendendo ognuno il proprio ritratto al chiodo e dando forma così all’esposizione.
Ma, nonostante tutti i miei sforzi, devo ammettere che, accidenti, il miglior esempio di autoritratto kitsch me l’ha servito il mattino dopo Italo Rota al convegno THINKITSCH, mostrandoci l’episodio dei Simpson su Frank Gehry.
L’architetto dei Guggenheim appare nel cartoon come un vecchio superbo e cinico, le cui opere stravaganti sembrano frutto di una demolizione più che di una costruzione. Ebbene, la cosa incredibile, è che a scrivere la sceneggiatura di questo video è stato proprio lui, Frank Gehry in persona! Incredibile, ma vero! O sarà solo buona pubblicità?