Sono molte più le cose che ci uniscono rispetto a quelle che ci dividono. Parola di scienziati!
Come molti, ho riso e pianto guardando il video in cui un gruppo di persone - filmato prima e dopo aver visto i risultati dell'analisi della propria mappa genetica - si trova improvvisamente a guardare gli altri da una prospettiva diversa: non più l'altro da sé ma l'altro dentro di sé. Ognuno scopre con sorpresa di essere il frutto fantasioso di un inaspettato mix di popolazioni, molte delle quali lontanissime dalla propria nazionalità. Chi ha pelle chiara e occhi azzurri scoprire magari di essere 70% africano e chi ha pelle nera di essere in gran parte cinese o celtico, tanto per fare un esempio. Insomma, il nostro DNA ha viaggiato tantissimo!
Al dirompere di tali insight, affiora una nuova benevolenza di sguardo, per cui i pregiudizi vengono considerati come aspetto parziale e ipersemplificato di un realtà più complessa e spesso portatrice di valori positivi.
Da questo esperimento si tocca con mano ciò su cui antropologi, archeologi, storici, genetisti e linguisti sono arrivati a concordare: il mondo è sempre stato villaggio - ben prima della globalizzazione - e noi umani siamo figli di un'unica stirpe che originò a Laetoli, in Tanzania settentrionale circa 3,75 milioni di anni fa. Vivevamo in riva a un lago che sorgeva tra vaste praterie, con monti all'orizzonte, attraversate da un sentiero, vivevamo in comunità insieme a branchi di (altri) animali. Questo è provato dal ritrovamento delle prime orme di camminata bipede in quella zona e spiegherebbe anche la nostra innata predilezione per questo tipo di paesaggi e - per esteso - un sentire comune in merito a ciò che è bello - una teoria evoluzionista della bellezza spiegata in modo divertente dal filosofo Denis Dutton nel suo libro The Art Instinct e ad una conferenza TED
A un bel momento la comunità dei nostri nonni di Laetoli comincia a desiderare di spostarsi, scavalcare i monti e cominciare la conquista del mondo. Lo rende possibile una rivoluzione anatomica, il bipedismo, che rende gli uomini più resistenti alla calura (perché è minore la superficie corporea esposta ai raggi solari), più abili (hanno le mani libere) è letteralmente più lungimiranti, potendo vedere lontano.
Dalla prateria inizia una migrazione che porta i nostri antenati a spostarsi verso est, a colonizzare India e Indocina, per attivare poi al vecchio mondo. Man mano che si espandono le comunità, si sviluppano particolari abilità e mutazioni genetiche per adattarsi agli habitat in cui si trovano.
A un certo punto, però, tra tutti gli "homo" rimane solo il Sapiens. Perché? Alcuni imputano le cause alla sua prolificità o all'estinzione dell'Homo di Neandertal, dell'Homo Heidelbergensis ed altri a causa di calamità naturali, come la terribile eruzione del vulcano Toba a Sumatra.
Eppure altri vedono nell'Homo Sapiens una grande carta vincente: la convergenza adattiva, cioè la capacità di adattarsi a mutate condizioni, sia a livello genetico (mutazioni nel colore della pelle, capacità di digerire determinate novità alimentari come il latte, ad esempio) sia a livello fisiologico (l'abbronzatura o la variazione di globuli rossi in relazione all'altitudine).
Ma esiste un altro livello che caratterizza l'Homo Sapiens: la capacità astrattiva di progettare. L'Homo Sapiens inventa tecniche costruttive che gli permettono di ripararsi, raffina l'arte della caccia con arco e freccia e inventa l'ago da cucire, con cui comincia a fabbricare vestiti che gli consentiranno di spingersi fino ai deserti freddi e montagne.
La capacità di inventare non risponde solo a necessità di sopravvivenza, bensì anche a necessità interiori, spirituali.
Ecco allora che, se pensiamo agli egizi come primi maestri di arte funeraria, ci sbagliamo, perché già 45000 anni fa - cioè 40000 anni prima - l'uomo preistorico seppelliva i defunti ornandoli di monili e suppellettili. Gli Asmat della Papua Guinea, ad esempio, celebravano un vero e proprio culto della testa, per cui fabbricavano teste di legno dipinte che venivano affiancate alla salma.
Se pensiamo alla medicina, ci stupiremo di scoprire pratiche di cura e assistenza ai malati, i cui segni sono stati ritrovati nelle sepolture di Shanidar sui monti Zagrei nel Kurdistan iracheno risalenti a 60.000 anni fa: le ossa dell'individuo trovato nella sepoltura in posizione fetale presentano segni di interventi di cura dopo lesioni, traumi e fratture e segni di pollini da fiori e semi di diverse piante utilizzati a scopo medicinale.
Se pensiamo alla narrazione, come capacità di creare mondi immaginari, scopriremo che le radici comuni delle fiabe popolari risiedevano nell'esperienza di iniziazione degli adolescenti al mondo adulto, per cui i ragazzi venivano allontanati da casa e spediti nel bosco in cui dovevano affrontare dure prove.
Evento, quello della conquista dell'età adulta, che veniva celebrato e festeggiato con canti e danze e la cui ritualità, una volta terminata la tradizione delle pratiche iniziativa, rimane come schema nelle narrazioni di tutti i popoli (allontanamento - prove - ritorno - conquista nuova identità).
Anche la narrazione segue una sorta di convergenza narrativa, risponde cioè al bisogno universale di dare risposte alle maggiori difficoltà della Vita: l'uomo adotta strategie narrative simili a grandi distanze, come emerge dallo studio comparativo delle mitologie di svariati popoli indigeni nei libri di Clarissa Pinkola Estes.
Tutto, osservando la storia della nostra evoluzione, sembra parlare di unità, tramite similitudini e ricorrenze.
Ma c'è una cosa che rimane molto variegata al suo interno ed è il linguaggio. Anche se non si sa ancora con certezza da dove nasca la prima lingua, sappiamo che i ceppi linguistici erano tantissimi e la varietà linguistica incredibile.
Le differenze linguistiche e genetiche nascono perché si creano comunità che non hanno scambi con altre. Nel lungo termine, questo porta a creare diversità genetiche e ramoscelli linguistici.
La lingua poi si evolve e cresce in sintonia con gli habitat: si sviluppa il lessico necessario a descrivere l'ambiente, che cambia nel tempo col mutare delle condizioni ambientali e sociali. Quindi tanto maggiore la biodiversità, tanto maggiore la ricchezza linguistica.
L'estinzione delle lingue fa parte dell'alterazione dell'ecosistema ad opera delle attività umane che marginalizzano le minoranze economiche e politiche.
In Nuova Guinea prima dell'arrivo degli occidentali si parlavano 5000 lingue, poi 700. Le lingue muoiono da sempre - vedi l'etrusco e l'ittita - ma da 5 secoli sono scomparse a velocità senza precedenti. L'evoluzione della diversità linguistica nel mondo moderno si riassume nell'espansione di poche lingue a scapito di altre.
Insieme alla biodiversità stiamo perdendo le lingue e stiamo mettendo a rischio la vita del pianeta, come mai prima.
Certo, il tempo ha estinto intere popolazioni con le glaciazioni e altre catastrofi naturali, ma ora sovrappopolazione, global warming, inquinamento e sfruttamento delle risorse rischiano di accelerare la prossima estinzione. Qualcuno si chiede se la peculiarità dell'Homo Sapiens, cioè sapersi adattare, sarà sufficiente a farlo sopravvivere ancora una volta. Di certo l'adattabilità è attiva e si manifesta nei grandi piedi e grandi stature delle nuove generazioni (nuovi grandi camminatori?) e nella mutazione genetica più recente, ossia il prolungamento dell'arto superiore generalmente destro con una propaggine chiamata smartphone.
Se gli adattamenti dell'Homo Sapiens ne potenziavano il corpo, siamo certi che sia lo stesso per la tecnologia? Non stiamo piuttosto trasferendo la nostra memoria alle banche dati, il nostro senso dell'orientamento ai navigatori, la nostra capacità logico-matematica ai calcolatori, le nostre abilità ai videogame e photoshop, le nostre relazioni alle chat, la nostra esperienza tattile e olfattiva allo shop online, la nostra capacità di osservare ed analizzare al rubare immagini?
Se la tecnologia venisse d'un tratto meno - in una non impossibile tempesta solare - i nativi digitali di oggi e del futuro, su quali abilità potrebbero contare?
È un peccato che la mostra Homo sapiens. Le nuove storie dell'evoluzione umana attiva in queste settimane al Mudecal Museo delle Culture di Milano, dove ho appreso gran parte di queste informazioni, non affronti gli interrogativi che la ricostruzione storica proietta sul futuro.
Peccato davvero. Pare che mentre le architetture dei nuovi musei e i loro nomi (Mudec, Miart, Muse etc...) rispecchiano lo stile contemporaneo internazionale, i contenuti continuino ad essere esposti con un impianto didattico fondamentalmente classico, nonostante un make up d’immagine, con una modalità poco incline a sviluppare il senso critico e la sintesi personale.
Un solo fatto la dice lunga: in questa mostra non si possono scattare fotografie. Ma a cosa servono le mostre se non a fare ricerca? E cosa ce ne facciamo di una ricerca che non possiamo ri-cercare, cioè letteralmente “cercare di nuovo”, se nell'era digitale non possiamo portare con noi nessun ricordo sintetico dell'esperienza? Ah già, forse una soluzione si trova: comprare il catalogo.